A metà dell’anno scorso nella città metropolitana di Milano lavoravano 713.491 donne, con un’incidenza percentuale in grado di portare il tasso di occupazione al 67%,, ben 15 punti percentuali più della media nazionale ma quasi 10 punti in meno rispetto ai colleghi maschi milanesi, quando in Italia la stessa differenza è del 18%. Le stime sono elaborazioni della Camera del Lavoro Metropolitana di Milano su dati INPS, ISTAT e Sviluppo Lavoro Italia SpA.
Le lavoratrici stanno meglio a Milano che nel resto del Paese? Sembrerebbe di sì, ma se andiamo a vedere più da vicino i problemi si fanno più evidenti.
“Cominciamo col dire che a nessuna lavoratrice è stato regalato alcunché”, commenta la Cgil Milano. “Le loro posizioni lavorative, per quanto inadeguate rispetto alle competenze acquisite, rappresentano l’esito di una preparazione accademica e scolastica rilevante”.
Nel 2024 il 42,8% delle lavoratrici ha un diploma di laurea o post laurea contro il 30,6% dei lavoratori maschi. Questo porterebbe ad immaginare una presenza femminile ben strutturata e collocata ai piani più alti della direzione d’impresa, con ruoli di responsabilità adeguatamente retribuiti. “Ma la realtà non va sempre di pari passo col buon senso”, commenta la Cgil. “Esiste un gender gap all’origine e che attiene alla diseguaglianza di genere nella valorizzazione del ruolo professionale con riferimento alla formazione acquisita e questa differenza si riverbera lungo tutte le condizioni di lavoro e cominciare dalla caratteristica del rapporto di lavoro”.
A Milano le donne con un rapporto di lavoro a tempo parziale sono, strutturalmente, 191.084 (il 75% del totale dei contratti parziali), la loro condizione è per 2/3 involontaria, ovvero lavorerebbero volentieri a tempo pieno se le condizioni lo consentissero. La maggior parte sono inquadrate come impiegate. Il numero cala drasticamente quando si parla di ruoli dirigenziali.
Considerando tutti i fattori che concorrono alla costruzione del reddito, ovvero: presenza rilevante in settori diversamente retribuiti, alta incidenza del part time rispetto al tempo pieno, qualifiche inadeguate se riferite alla formazione acquisita, il reddito medio giornaliero di una lavoratrice milanese è stimabile a 112,9€ mentre il reddito medio giornaliero di un lavoratore milanese, stimato con i medesimi criteri, è di 148,2€, con una differenza tra le due condizioni reddituali pari 23,8% che rappresenta il gender gap della città metropolitana di Milano, più elevato rispetto allo stesso dato nazionale di oltre 3 punti percentuali.
A questo risultato si arriva dopo una storia lavorativa che tende a divaricare la diseguaglianza con l’avanzare dell’età, a motivo dell’incidenza di diversi fattori che portano a deprimere i redditi delle donne. Una tendenza così invasiva, soprattutto dal punto di vista culturale, da condizionare anche la classe di età più avanzata quando, si presume, sia cessata la cura dai figli (ma non di altri familiari) e, in ogni caso, capace di annichilire il valore del lavoro femminile che, addirittura, declina dopo i 55 anni.
Con riferimento alla disoccupazione, a metà 2024 erano 31.044 le lavoratrici disoccupate, il 19% in meno rispetto all’anno precedente.
Poiché il tasso di inattività non è variato nel frattempo, è normale supporre la loro provenienza da altre occasioni lavorative, una condizione che riguarda il 78,6% delle disoccupate milanesi.
Un’ultima notazione riguarda la quota delle disoccupate donne con laurea che rappresentano il 22% contro il 5,5% riferito alla stessa condizione dei colleghi maschi.
La Cgil milanese sottolinea: “Il lavoro precario, il part-time involontario e le discriminazioni nei percorsi di carriera non sono una scelta individuale, ma una condizione imposta da un sistema che continua a penalizzare le donne. Il 23,8% di gender pay gap non è solo un’ingiustizia economica, ma un segnale chiaro di come il lavoro femminile venga ancora considerato meno strategico e meno degno di riconoscimento”.
“Senza un cambio di rotta deciso – continua la Cgil – il sistema produttivo milanese e italiano continuerà a privarsi delle competenze e del talento di metà della popolazione attiva, con gravi conseguenze sulla crescita economica e sulla giustizia sociale. La lotta per il lavoro femminile non è una questione di nicchia, ma una priorità per un mercato del lavoro equo, moderno e sostenibile”.